Marzio Dall'Acqua - presentazione catalogo

In occasione della mostra personle presso la galleria "il quadrato" di Chieri,

Marzio Dall'Acqua, presidente dell'Accademia di Belle arti di Parma,

scrive l'introduzione del catalogo.

 

Luci di velluto

I Greci dicevano che la meraviglia è l'inizio del sapere e allorché cessiamo di meravigliarci corriamo il rischio di cessare di sapere.”

Ernst H. Gombrich

Ecco, l'intatta meraviglia è la cifra creativa ed interpretativa dell'attività incisoria di Nella Piantà, che sorprende il reale, lo cattura in un momento di distrazione, di intimità, di solitudine anche, lo ricostruisce attraverso la luce, lo fa affiorare da un nero indistinto a stupire noi che guardiamo e così che possiamo scoprire quello che credevamo di sapere già e ce lo fa vedere con occhi nuovi e diversi. Qualsiasi iconografia dell'artista nasce dal senso di un lieve stupore, quasi un disorientamento, dall'incontro con l'altro, con la diversità, siano essi uomini od animali, che continuano indifferenti nei loro gesti, nell'espressione dei loro pensieri, stati d'animo ed emozioni. Non dialogano con chi li guarda, ma è sempre lo sguardo che rimane tra noi e loro, tra i nostri occhi ed il loro mondo, sentito come non raggiungibile in altro modo, anche se il sentimento che ne nasce, di empatia, di partecipazione, di pietas, in un certo senso, di struggimento sentimentale per una partecipazione possibile, ma non comunicabile, non condivisibile con l'essere umano od animale che affiora sulla lastra e quindi sulla carta impressa. I soggetti spesso sembrano guardarti negli occhi, ma, nonostante questo apparente incrociarsi di sguardi, capisci che inseguono, concentrati, qualcosa che sta davanti a loro, di fronte ai loro segreti pensieri.

Questo è tanto vero che anche nell' "autoritratto" Nella si sdoppia, mostrando tutti e due i suoi lati, concentrata su quanto ha davanti, ovviamente la matrice su cui lavora, a proteggersi e prolungarsi nel braccio e nella mano, che sono gli strumenti principali, assorta e perduta nell'azione del creare che diventa così totalmente personale, così privata, da ammetterci, in punta di piedi, sbirciando, socchiudendo una fessura nel reale, da respingerci, nella sua totalità interiore che rifiuta ogni dialogo, ogni possibilità di confronto. Non si offre, ma anzi si chiude su se stessa, in un cerchio che unisce entrambi i lati, l'alto e il basso, insomma l'intera lastra. È solo possibile sbirciare, cogliere una situazione, una emozione ed un sentimento che ritorna a noi e ci fa sentire provvisori, curiosi al limite dell'indiscrezione, ma anche felici per il piacere di una scoperta inaspettata, improvvisa ed imprevedibile.

Nella Piantà si è lasciata scorgere, mentre in lei sapere e creatività si trasformano in gesto e, come scrive, con straordinaria sintesi e sincerità nell’”Autopresentazione" che introduce all'iconografia: "Sì, tu fai, - detto dalla Creatività alla Ragione - ma la sensibilità è mia, io entro nei soggetti e quando tu fai, io sono dentro alla lastra e ti attiro dentro al nero profondo e ti guido alla ricerca della luce, e ti mostro quello che il soggetto vuole che si veda e quello che vuole nascondere". Impossibile dire meglio. Questo dialogo interiore, ancora una volta è il risultato di uno sdoppiamento che ha, come punto catalizzatore, la lastra ed il soggetto che chiede di apparire, di venire alla luce, in modo autonomo, nella propria singolarità ed eccezionalità di essere vivente. È un affiorare che si concentra nell'attimo di un occhio estraneo ed esterno che vede, che registra, come in una fotografia, in una istantanea che blocca il fluire, mentre la realtà al di fuori dell'immagine è già mutata e diversa: questa istantaneità dell'apparizione è uno degli elementi che conserva alle incisioni calcografiche di Nella Piantà quella freschezza ed immediatezza che si mescola con lo stupore, con la meraviglia, ottenuta con una tecnica padroneggiata ad altissimo livello, che in nessun modo tradisce né il tempo della progettazione, né la complessità del processo incisorio diretto, specie per le opere di maniera nera, le sue fasi, l'alternarsi degli strumenti e delle operazioni.

Ma ovviamente non c'è nulla di fotografico, anche se il progetto mimetico è immediato ed evidente, ma nascendo da una esigenza interiore, da una emozione concentrata e trattenuta a lungo, in un processo eidetico interiore, più che visiva è mentale, emotiva, simpatetica, come si diceva, contemporaneamente al momento del disvelamento ed al soggetto nella sua singolarità.

Nella "Vita di Apollonio di Tiana" - un filosofo taumaturgo, un santo pagano vissuto all'epoca di Cristo a cui fu contrapposto - scritta da Flavio Filostrato (II-III secolo d. C.), nel passo in cui il maestro cerca di definire lo scopo della pittura, in un dialogo di tipo socratico, afferma: "Ma questo non significa forse che l'arte dell'imitazione ha un duplice aspetto? Uno è quello che porta ad usare la mano e la mente per realizzare imitazioni, l'altro quello che realizza la somiglianza unicamente con la mente?". Ecco, Nella realizza la somiglianza solo con la mente, come direbbe l'antico greco, e questo è tanto più vero se si legge il passo successivo che introduce, per completare la ricerca di questa mimesis attraverso l'occhio di chi guarda l'opera realizzata che proprio con lo sguardo viene come completando, integrando il linguaggio dell'artista: "Perfino se disegnassimo uno di questi indiani - il dialogo avviene nel palazzo di un re indiano - con del gesso bianco, apparirebbe nero perché ci sarebbe sempre il suo naso schiacciato, i suoi spessi capelli ricciuti e la sua mascella sporgente… a rendere nera l'immagine per chi sa usare gli occhi. Per questo dico che coloro che osservano opere di pittura e disegno devono possedere la facoltà imitativa e che nessuno può capire il cavallo o il toro dipinto se non conosce questi animali".

Il gioco del bianco e nero sembra richiamarsi immediatamente alle luci di velluto della maniera nera della Piantà che, proprio perché sa che il suo sguardo incontra sulla stampa quello dell'osservatore per costruire una immagine che è ancora doppia, poiché è quella che lei ha proiettato e costruito e quella che l'altro percepisce, propone un taglio delle immagini che non necessariamente implicano né la figura intera, né l'intero particolare, di un muso, ad esempio, ma taglia l'immagine, specialmente nella stagione creativa più recente, in modo tale da ottenere una esaltazione di particolari che diventano emblematici per il resto della figura, che meglio e più intensamente fanno entrare nell'animo del soggetto, senza perdere, anzi accentuando, quel senso di sorpresa e stupore che permangono intatti, proprio perché due sguardi e due emozioni collaborano a rendere la figura ancora più viva, più pregnante, nel sottrarla alla dissipazione del tempo, alla fugacità dell'evento, facendole così prendere la consistenza dell'esistenza ed insieme facendola diventare memoria di un hic et nunc divenuto eterno.

Ed ancora: gli indiani di Apollonio sono diventati "Ritratti" di orientali dai volti rugosi, concentrati in una visione interiore che modella le fisionomie, contorce i corpi in gesti di quotidiana semplicità e sopravvivenza, che emergono da ombre dense e avvolgenti come coperte, protettive ed evocative di luoghi e sogni lontani, con noi non condivisibili, ma che ci emozionano proprio per questa estraneità, per questa solitudine, questo isolamento che è al limite del dialogo con le ombre. L'alterità, in questa serie di immagini, è in una diversità che non ha mai nulla di esotico, di curioso e stravagante, ma si radica nella semplicità di una umanità "con occhi precristiani", come avrebbe detto Pier Paolo Pasolini.

La serie degli "Sguardi" affronta il tema sia della luce che della sua visibilità, dei modi con i quali la cogliamo ed insieme la rappresentiamo, in una citazione che ha reminiscenze caravaggesche, richiami colti e sottintesi alle maschere, alla deformazione del volto, all'apparire e al dissimulare, all'essere e al mutare in un trasformismo che rasenta una evoluzione all'incontrario verso il mescolamento con l'animale. Una parte del volto diventa indice e sintomo, segnale e messaggio in un intrigo che accentua dall'altra parte la ricerca sul mezzo, sulla tecnica, sulle possibilità del nero su nero, del far costruire l'immagine, dell'esplodere dall'interno della lastra di luci e luminescenze, di fosforescenze, con sapienza e raffinatezza.

Ricerca ed esiti che troviamo anche nelle opere della serie intitolata alle "Mani", tema straordinario, che l'artista elabora sottolineando il loro ruolo indispensabile, ma in situazioni apparentemente marginali. Le mani non sono protagoniste di un virtuosismo disegnativo e compositivo di grande sapienza, ma sono presenze, anch'esse solitarie, in uno sforzo individuale, originario quasi, come all'inizio di qualcosa a venire. "La mano - ha scritto Donatella Biasutti - a differenza della bocca o dell'occhio, è emblema di tutto l'uomo. La mano è scambio: essa cura la ferita, consola come un 'tiepido' spessore d'ombra. È comunicazione: la mano si 'spalanca' al mondo, è realizzazione di sé: 'senza le mani si muore'. È simbolo cosmico: il giorno e la notte sono i suoi 'due poli'. Le due mani a coppa contengono il mattino e l'ombra. Così come segna il Tempo, essa segna lo Spazio: 'è orizzontale', 'frontiera'. È appartenenza: a sé, agli altri, al mondo". Donatella Biasutti è la traduttrice del volume di Edmond Jabès (Il Cairo, 1912 - Parigi, 1991) intitolato "La memoire et la main”, edito da Mondadori, in Italia, nel 1992, le cui poesie potrebbero fare da commento a questa serie di opere di Nella Piantà. Ma qui ci basta un verso per sintetizzare il tema: "Ouvre ta main / Cette ouverture est le salut", cioè "spalanca la mano /in questo spalancarsi è la salvezza", dove l'"ouvre" gioca per allitterazione e rimandi con "ouverture", apri è inizio d'opera, anche musicale, in una ambiguità di sensi e significati, che vivono nell'allusione, nella trasformazione, altalenante di richiami, di rinvii. Così questo fare ma anche questa apertura della mano diventa saluto e salvezza - salut -. La mano è infatti luogo della trasformazione, della metamorfosi, contiene lo spirito che le preesiste e che attraverso essa -"lo Spirito sta rannicchiato nella mano"-, cerca di mutarsi in logos, di impastarsi con l'esistenza e con la carne. È memoria ed insieme si proietta nel futuro dove rimane nascosto il senso, il significato ultimo, che ora non può apparire che come un'epifania, una rivelazione, un presentimento. La mano dunque è luogo del possibile, del potenziale, dell'attività e del dominio. Esiste nell'alternanza della duplicità, destra e sinistra, positivo e negativo, nell'opposizione tra luce e ombra, tra solarità e notturno: "La tua mano sulla mia mano / tiepido spessore dell'ombra", ancora Jabès.

Questo "spessore dell'ombra" è quello che avvolge le forme nelle opere di Nella Piantà, gli oggetti che emergono e galleggiano nel buio e le mani che cercano di costruire parole, voci, musica, insomma suoni trovando in altro il proprio linguaggio, cercando fuori di sé la possibilità di esprimersi, di comunicare, di uscire dalla loro solitudine. Ancora il doppio, che affiora, l'alterità inseguita e ricercata con ostinazione.

Al fianco di queste serie quella dei "Felini", proseguita negli anni e quella dei "Primati" e più genericamente degli "Animali", dove il tema della diversità è evidente, ma altrettanto visibile è il percorso che ha portato l'artista a sviluppare, arricchire e rendere assolutamente personale sia la sua tecnica, che il taglio delle immagini, che quel costruire attraverso la luce, una luminosità che diventa graffio su superfici morbide come velluto, fatte d'aria raggrumata che si distende e tende, si condensa in brume e nebbie di notti senza luci, che si confondono con il pelo, con le pellicce, gli artigli, per luccicare improvvisamente per denti, occhi, musi che prendono la consistenza dei fantasmi e dei sogni, per essere riassorbiti dalla notte dalla quale erano emersi.

Marzio Dall'Acqua

presidente dell'Accademia Nazionale di Belle Arti di Parma